Case vuote, stanze separate
Spiando l'effimera realtà di All of Us Strangers

Postato il: 07 marzo 2024 -

(per come è consuetudine, preferisco non ricapitolare completamente la trama di un’opera se sto facendo un’analisi. Ma, visto che parliamo di un film ancora in proiezione nelle sale, se non l’avete ancora visto, sconsiglio di leggere)

EXT. SUBURBAN HOUSE 1987

Questo dettaglio, mostrato proprio all’inizio di Estranei (titolo originale All of Us Strangers), è in grado di dettare il tono e il tema dell’intero film, nella sua disarmante semplicità. Seguendo uno sviluppo fortemente character driven, Andrew Haigh ci trasporta nel mondo silenzioso di Adam (Andrew Scott), uno sceneggiatore per film e serie tv.
L’assordante silenzio della sua vita nei condomini londinesi è interrotto da un incontro, quello con il vicino di casa Harry (Paul Mescal), che bussa disperatamente alla sua porta, ubriaco e desideroso di compagnia. Adam, scostante, lo respinge.
Questa scena, che costituisce l’incidente iniziale, è stata definita dal regista stesso come la più importante di tutto il film. In una breve interazione, in un contrasto fra uno scrittore chiuso in sé, scostante e perennemente a disagio e un’anima troppo sola per la notte in un palazzo vuoto, circondata da luci calde e sudore fresco, avviene l’unico scambio umano di questo film che guiderà il viaggio interiore di Adam.
Non è un caso che l’unico momento vivo di questo film avvenga sulla soglia di un appartamento: Estranei è un film agghiacciantemente liminale. La storia di Adam si svolge al confine, che incarna la sua poetica e il suo conflitto. Tutto, nell’opera, è riconoscibile, sia al protagonista che allo spettatore, ma non abbastanza da essere intimo.

Ade e Persefone alle porte degli Inferi

Dei suoi genitori, morti in un incidente stradale a seguito una festa di Natale a cui avrebbe dovuto prender parte pure lui, al tempo adolescente, rimangono solo delle polaroid ingiallite e sfocate: è da questi ricordi, svaniti per metà e lontani, che il protagonista cerca di ripartire per ritrovare un senso di appartenenza. Si circonda di memorie di genitori che lo hanno voluto bene, ma non abbastanza da capirlo, tra un padre che ignorava i suoi pianti al termine di una giornata di scuola infarcita di bullismo, ed una madre che non riusciva a capire i suoi bisogni, per cui la pratica dell’affetto si svolge più che altro attorno a dei rituali esteriori.
La familiarità scostante della soglia permea qualsiasi aspetto del suo vissuto, ed è rimarcata e affermata proprio dal suo interesse romantico, Harry, che dichiara di aver ancora un rapporto con i genitori, ma non abbastanza da informarli sulla sua vita (specie per quanto riguarda la sua sessualità). Sanno di lui, ma non se ne parla, non si chiede di queste cose.
La zona limite, che nei suoi tratti riconoscibili è inquietante, è dove si gioca tutto il realismo magico dell’opera, che pasce in quella cosiddetta uncanny valley, un luogo immanente ma trascendente, posticcio che ci appare reale, ma non tanto da illuderci.
L’elemento magico è manifestato brillantemente tramite le scelte di regia e di casting, ed è introdotto dall’incontro con i genitori, nella fattispecie del padre, di Adam.
L'abbraccio con il padre, interpretato da Jamie Bell (qualche anno più giovane di Andrew Scott) ha quasi i toni di un appuntamento con un fidanzato o un amico stretto.
Esso si cementifica in seguito nel rapporto con Harry, una situationship (una frequentazione fissa, ma non impegnata), in cui entrano ognuno nella vita dell’altro, ma non abbastanza da dirsi fidanzati. Fin dal primo appuntamento, in cui il primo bacio ci risulta scomodo e distante, è palpabile la tensione, negativa e positiva, che culminerà nella serata al night, ovvero il momento in cui Adam cade in un k-hole (dissociazione per mezzo di ketamina).
Sul piano reale, invece tutto avviene troppo tardi, quando i sentimenti oramai non diventano null’altro che nostalgia, rimorso, angoscia.
Il menu familiare al ristorante arriva quando già i genitori sono trapassati, il tè è già freddo, il dolce è insipido. L’avvicinamento con Harry avviene quando oramai è già morto. Al sesto piano le porte si chiudono, ogni occasione è persa. Adam è diventato incapace di spostarsi dal letto vuoto in cui è rimasto la notte che i suoi genitori sono usciti.
In un mondo dove si è sempre estranei nella propria casa, non possono che esserci solo edifici vuoti con luci al neon e grossi vetri. Dei piccoli acquari da cui poter osservare gli altri con distanza, che ci rende incapaci di abbracciarci veramente.

Hauntology

Quindi, lo spazio liminale si assume il peso di narrare quell’aspetto della comunità LGBTQIA+ che negli ultimi anni ha ricevuto sempre più interesse: la queer loneliness, la solitudine frocia. Non abbastanza vicini alla famiglia, non abbastanza stretti nelle relazioni, fantasmi che orbitano la socialità.
Nel rendere il senso di sradicamento dall’albero familiare e intimità effimera, in un contesto in cui non ci si sente davvero parte di una comunità, il linguaggio visivo del regista è efficace e intuitivo, eloquente ma non esplicito. L’aria morbosa della narrazione, intervallata da momenti di nostalgico affetto e tenerezza fra amanti, risulta genuina e commovente (tanto che la sala, piccola ma gremita di prismatiche genti, esplodeva periodicamente in lacrime). Il coming out mancato, il momento di vicinanza profonda sfuggito per un soffio, spezzano il cuore oltre l’apatia che circonda il vuoto di una ruminazione costante.
Tuttavia, se a livello filmico e cinematografico, è sicuramente un’opera coinvolgente e toccante, credo che il suo punto debole stia proprio nei dialoghi.
Se c’è della delicatezza e della sincerità nella sua lontananza, i testi, specie nella prima parte (nel setting) hanno i connotati di una dichiarazione di intenti. Il primo incontro tra Harry e Adam, e nello stesso modo quello tra la madre e suo figlio, fanno trasparire un che di didascalico, riducendosi a delle spiegazioni dirette e legnose. Se è comprensibile nell’ottica del realismo magico dell’opera, che il protagonista discuta, letteralmente, dell’utilizzo del termine queer, si nota una certa dissonanza di tono con conseguente appiattimento dell’illusione.
Inoltre, il film ha un andamento cadenzato ma teso; se esso risulta adeguato alla narrazione per la maggior parte del tempo, ha dei momenti in cui diventa troppo intenso, o troppo lento. L’introduzione e la scena che introduce il finale scendono, a mio modesto parere, nello snervante, molto più del necessario, facendo vacillare quella sensibilità necessaria.
Sulla scena finale, che vale la pena discutere, invece, ammetto di avere sentimenti contrastanti.
Se, da un lato, è una conclusione perfettamente in linea con il solipsismo della storia e con l’inadeguatezza di sentimenti che riescono a oltrepassare il confine solo quando non si può più fare nulla, e viene anticipata in svariate occasioni tanto da poter esser realizzata prima del dovuto (contribuendo negativamente alla tensione), mi è risultata stridente persino per le logiche interne.
Se, infatti, Adam sembra essere uscito dalla propria spirale nostalgica, ha reciso il proprio cordone ombelicale e aver curato le sue ferite, la realizzazione che Harry sia solo un nuovo pensiero da tenere ben al caldo al piano di sopra, distrugge a livello emotivo ma è anche decisamente patologica. Quella vetrata, rotta pochi minuti prima come prova incontrovertibile che quel mondo non ha più nulla di vivo, perde il suo significato di membrana posta a protezione dal trauma che viene finalmente infranta. Così facendo, si spegne quella componente realista e magica per sprofondare in uno sconforto sovraimposto. Il superamento della soglia finisce per non essere soddisfacente come sperato, nonostante non mi aspettassi un lieto fine. Tuttavia, ringrazio il regista di non aver fatto un Il Sesto Senso: se avessi saputo che persino Adam era morto, avrei semplicemente fatto tornare indietro tutte le lacrime versate per reintegrare il sodio perduto.

Nonostante queste ultime critiche, che comunque sono più note a margine, l’ho trovato un film toccante senza essere stucchevole, competente nei suoi ossimori. Gli intrecci tra le gambe sudate di Paul Mescal e Andrew Scott, mentre mangiano una pizza con birra a seguito, sono imbevuti di leggerezza e passione genuini.
Tuttavia, nonostante abbia il suo impatto, non credo che riuscirò più a vedere questo film almeno per un pezzo. Quel senso di inquietudine addosso, che non è stato lavato via da The Power of Love di Frankie Goes to Hollywood, ha avuto bisogno di tempo per essere digerito appieno. Sotto questo punto di vista, Estranei è un film che ti chiede di essere osservato ma tenuto a debita distanza, facendosi latore della sua stessa narrativa.

Torna su
Il Comandamento dell'Amore
All is full of spores