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"L'Occidente e le sue Oasi"

Postato: domenica 12 maggio 2024 -

ISRAELE

Da più di 200 giorni, questa parola, in un modo o nell’altro, governa il dibattito pubblico. Non è difficile nemmeno capire il perché, visto che è questo il nome che firma le fosse comuni piene di cadaveri in uniformi mediche e corpi...

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  • Il Comandamento dell'Amore, ( 31/03/2024 )
    (piccola premessa: questo articolo sarà un po’ più breve del solito, ed è più una serie di considerazioni piuttosto che un’analisi ricercata, vi prego di vederlo come tale)

    Sufjan Stevens, davvero, mi piace molto. È uno dei pochi musicisti che riesce a farmi piangere, parlando di un argomento che di solito tendo a evitare nella musica (l’amore). Illinois, Carrie & Lowell e Javelin sono entrati di diritto in quel gruppo di album che non posso fare a meno di ascoltare, specie d’estate. Le sue sinfonie malinconiche e leggiadre mi ricordano i pomeriggi di calura, l’affanno e la salsedine. Tuttavia, il motivo per cui sto scrivendo questo non è sicuramente argomentare quanto Shit Talk sia stato una raffica di pugni sullo stomaco tali da farmi uscire l’anima a forza di lacrime, né dell’idealismo spensierato di Chicago; ma, in questa domenica di Pasqua, proprio della tensione che Sufjan Stevens mostra nei confronti di Cristo stesso.

    Sebbene ci siano alcuni pezzi dedicati specificatamente ad un dialogo con il divino, i riferimenti allo spiritualismo sono disseminati in tutto il suo corpus. Il sound, a metà tra il folk e l’ambient, con momenti onirici, è già trascendente; ed è completato da un rispetto sincero per il verbo, la parola che si fa carico del sacro, tanto da risultare esoterico in alcuni passi. In Ativan, ad esempio, al Lorazepam è data una connotazione transustanziale (Fill me with the blood of Jesus/ Clean my plate ‘til he receives us), nella ricerca di una teleologia del dolore propriamente cristiana (Is all for nothing? Is it all part of a plan? Tranquilize me and revise me, Ativan), mentre la ricerca di approvazione e rassicurazione di Genuflecting Ghost è resa attraverso la ritualità della preghiera. E sempre di Javelin, è Everything That Rises, una vera e propria preghiera, che ricorda i versi del Padre Nostro. Il titolo è una citazione a Pierre Teilhard de Chardin, che in Omega Point, scrisse “Remain true to yourself, but move ever upward toward greater consciousness and greater love! At the summit you will find yourselves united with all those who, from every direction, have made the same ascent. For everything that rises must converge” (“Rimani te stessə, ma salendo sempre verso una coscienza superiore e un amore più grande! Nella vetta troverai te stessə e chiunque sia ugualmente ascesə, da ogni direzione. Perché tutto ciò che sale, deve convergere"). Quindi, attraverso di essa, si chiede di poter concedere la propria anima all’amore, oltre ogni pena e sofferenza. Di ascensione e di tribolazione parla anche Ascension, dall’album omonimo, dove la rivelazione finale si mostra nella sua crudeltà, nella sua assenza di significato. In No Shade in the Shadow of the Cross, la perdita della madre viene descritta come un martirio, privo di qualsivoglia riposo e consolazione.

    Il ricorso alla simbologia e ritualità cristiana è quindi principalmente legato al dolore e all’amore. Non è un caso, quindi, che Javelin sia così ricco di questi riferimenti, tanto alti quanto intimi, considerando come in ogni pezzo sia palpabile tanta pena, quanta gioia. Non ho intenzione di dilungarmi su di esso, però: ci sarà modo in futuro (quando avrò finito di piangere). Ci sarebbe da dire tanto anche su molti altri pezzi, perché è una questione così fondante della poetica di Sufjan Stevens che la si riscontra persino nelle prime note di Chicago, o nel parlare di Portland in City of Roses.

    Tuttavia, vorrei concentrarmi su un pezzo nello specifico, uno dei suoi più brevi ma che nelle sue melodie e nei suoi significati non cessa mai di riempirmi di gioia: The Greatest Gift. Essa riprende il primo comandamento di Gesù Cristo, ovvero "Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Ama il prossimo tuo come te stesso.”(Matteo 22,37-39). Cominciando con “Praise the mountain and the rain/ All the gifts that still remain" la creazione è vista, di per sé, come oggetto e soggetto di venerazione: essa è prova diretta dell’amore del creatore, e pertanto ammirarla e rispettarla significa amare l’operato di Dio. “But the greatest gift of all/ And the law above all laws/ is to love your friends and lovers/ And lay down your life for your brothers” palesa quanto l’atto dell’amore in sé sia un soffio di Divino, nonché una legge più grande delle altre, in grado di donare la pace (As you abide in peace/ So will your delight increase). Nella strofa successiva, il precetto, il comandamento, non diventa solo dottrina, ma un principio di vita, una pratica e pertanto, verbo. La fede entra nelle pratiche di vita, nell’amore sincero, nella sconfitta. In questo pezzo è possibile vedere la poetica religiosa di Sufjan Steven espressa e riassunta. Come egli stesso dichiara, nella sua visione della fede non c’è un interesse didattico, ma è parte naturale del vivere in essa. Se lo spirito diventa parte della vita, ne permea ogni aspetto; e come lingua di fuoco, permette a Sufjan di esprimersi nel suo linguaggio, senza risultare repellente, forzato e dogmatico.

    Personalmente, trovo che in tutto ciò ci sia della tenerezza che permette di andare oltre qualsiasi religione: la contemplazione verso la Natura e l’amore non accomuna solo lə cristianə, ma chiunque abbia ancora un minimo di umanità; similmente, tuttə quantə ci siamo ritrovatə a interrogarci sul significato del dolore e ci siamo statə spiazzatə dall'assenza di esso. Forse è per questo che da ateo sento di potermi connettere con dei testi così spirituali, cristiani per altro, quella religione con cui mi sono trovato a confrontarmi solo in maniera negativa nella mia vita. Perché i significati religiosi non sono approcciati con proselitismo, bensì sublimati nelle esperienze umane: così come la sostanza di cristo entra nei corpi dei suoi fedeli permeando i più umili tra gli alimenti (il pane e il vino), così essa diventa parte musicalità e testi di Stevens.


  • Case vuote, stanze separate, ( 07/03/2024 )
    (per come è consuetudine, preferisco non ricapitolare completamente la trama di un’opera se sto facendo un’analisi. Ma, visto che parliamo di un film ancora in proiezione nelle sale, se non l’avete ancora visto, sconsiglio di leggere)

    EXT. SUBURBAN HOUSE 1987

    Questo dettaglio, mostrato proprio all’inizio di Estranei (titolo originale All of Us Strangers), è in grado di dettare il tono e il tema dell’intero film, nella sua disarmante semplicità. Seguendo uno sviluppo fortemente character driven, Andrew Haigh ci trasporta nel mondo silenzioso di Adam (Andrew Scott), uno sceneggiatore per film e serie tv.

    L’assordante silenzio della sua vita nei condomini londinesi è interrotto da un incontro, quello con il vicino di casa Harry (Paul Mescal), che bussa disperatamente alla sua porta, ubriaco e desideroso di compagnia. Adam, scostante, lo respinge.

    Questa scena, che costituisce l’incidente iniziale, è stata definita dal regista stesso come la più importante di tutto il film. In una breve interazione, in un contrasto fra uno scrittore chiuso in sé, scostante e perennemente a disagio e un’anima troppo sola per la notte in un palazzo vuoto, circondata da luci calde e sudore fresco, avviene l’unico scambio umano di questo film che guiderà il viaggio interiore di Adam.

    Non è un caso che l’unico momento vivo di questo film avvenga sulla soglia di un appartamento: Estranei è un film agghiacciantemente liminale. La storia di Adam si svolge al confine, che incarna la sua poetica e il suo conflitto. Tutto, nell’opera, è riconoscibile, sia al protagonista che allo spettatore, ma non abbastanza da essere intimo.

    Ade e Persefone alle porte degli Inferi

    Dei suoi genitori, morti in un incidente stradale a seguito una festa di Natale a cui avrebbe dovuto prender parte pure lui, al tempo adolescente, rimangono solo delle polaroid ingiallite e sfocate: è da questi ricordi, svaniti per metà e lontani, che il protagonista cerca di ripartire per ritrovare un senso di appartenenza. Si circonda di memorie di genitori che lo hanno voluto bene, ma non abbastanza da capirlo, tra un padre che ignorava i suoi pianti al termine di una giornata di scuola infarcita di bullismo, ed una madre che non riusciva a capire i suoi bisogni, per cui la pratica dell’affetto si svolge più che altro attorno a dei rituali esteriori.

    La familiarità scostante della soglia permea qualsiasi aspetto del suo vissuto, ed è rimarcata e affermata proprio dal suo interesse romantico, Harry, che dichiara di aver ancora un rapporto con i genitori, ma non abbastanza da informarli sulla sua vita (specie per quanto riguarda la sua sessualità). Sanno di lui, ma non se ne parla, non si chiede di queste cose.

    La zona limite, che nei suoi tratti riconoscibili è inquietante, è dove si gioca tutto il realismo magico dell’opera, che pasce in quella cosiddetta uncanny valley, un luogo immanente ma trascendente, posticcio che ci appare reale, ma non tanto da illuderci.

    L’elemento magico è manifestato brillantemente tramite le scelte di regia e di casting, ed è introdotto dall’incontro con i genitori, nella fattispecie del padre, di Adam.

    L'abbraccio con il padre, interpretato da Jamie Bell (qualche anno più giovane di Andrew Scott) ha quasi i toni di un appuntamento con un fidanzato o un amico stretto.

    Esso si cementifica in seguito nel rapporto con Harry, una situationship (una frequentazione fissa, ma non impegnata), in cui entrano ognuno nella vita dell’altro, ma non abbastanza da dirsi fidanzati. Fin dal primo appuntamento, in cui il primo bacio ci risulta scomodo e distante, è palpabile la tensione, negativa e positiva, che culminerà nella serata al night, ovvero il momento in cui Adam cade in un k-hole (dissociazione per mezzo di ketamina).

    Sul piano reale, invece tutto avviene troppo tardi, quando i sentimenti oramai non diventano null’altro che nostalgia, rimorso, angoscia.

    Il menu familiare al ristorante arriva quando già i genitori sono trapassati, il tè è già freddo, il dolce è insipido. L’avvicinamento con Harry avviene quando oramai è già morto. Al sesto piano le porte si chiudono, ogni occasione è persa. Adam è diventato incapace di spostarsi dal letto vuoto in cui è rimasto la notte che i suoi genitori sono usciti.

    In un mondo dove si è sempre estranei nella propria casa, non possono che esserci solo edifici vuoti con luci al neon e grossi vetri. Dei piccoli acquari da cui poter osservare gli altri con distanza, che ci rende incapaci di abbracciarci veramente.

    Hauntology

    Quindi, lo spazio liminale si assume il peso di narrare quell’aspetto della comunità LGBTQIA+ che negli ultimi anni ha ricevuto sempre più interesse: la queer loneliness, la solitudine frocia. Non abbastanza vicini alla famiglia, non abbastanza stretti nelle relazioni, fantasmi che orbitano la socialità.

    Nel rendere il senso di sradicamento dall’albero familiare e intimità effimera, in un contesto in cui non ci si sente davvero parte di una comunità, il linguaggio visivo del regista è efficace e intuitivo, eloquente ma non esplicito. L’aria morbosa della narrazione, intervallata da momenti di nostalgico affetto e tenerezza fra amanti, risulta genuina e commovente (tanto che la sala, piccola ma gremita di prismatiche genti, esplodeva periodicamente in lacrime). Il coming out mancato, il momento di vicinanza profonda sfuggito per un soffio, spezzano il cuore oltre l’apatia che circonda il vuoto di una ruminazione costante.

    Tuttavia, se a livello filmico e cinematografico, è sicuramente un’opera coinvolgente e toccante, credo che il suo punto debole stia proprio nei dialoghi.

    Se c’è della delicatezza e della sincerità nella sua lontananza, i testi, specie nella prima parte (nel setting) hanno i connotati di una dichiarazione di intenti. Il primo incontro tra Harry e Adam, e nello stesso modo quello tra la madre e suo figlio, fanno trasparire un che di didascalico, riducendosi a delle spiegazioni dirette e legnose. Se è comprensibile nell’ottica del realismo magico dell’opera, che il protagonista discuta, letteralmente, dell’utilizzo del termine queer, si nota una certa dissonanza di tono con conseguente appiattimento dell’illusione.

    Inoltre, il film ha un andamento cadenzato ma teso; se esso risulta adeguato alla narrazione per la maggior parte del tempo, ha dei momenti in cui diventa troppo intenso, o troppo lento. L’introduzione e la scena che introduce il finale scendono, a mio modesto parere, nello snervante, molto più del necessario, facendo vacillare quella sensibilità necessaria.

    Sulla scena finale, che vale la pena discutere, invece, ammetto di avere sentimenti contrastanti.

    Se, da un lato, è una conclusione perfettamente in linea con il solipsismo della storia e con l’inadeguatezza di sentimenti che riescono a oltrepassare il confine solo quando non si può più fare nulla, e viene anticipata in svariate occasioni tanto da poter esser realizzata prima del dovuto (contribuendo negativamente alla tensione), mi è risultata stridente persino per le logiche interne.

    Se, infatti, Adam sembra essere uscito dalla propria spirale nostalgica, ha reciso il proprio cordone ombelicale e aver curato le sue ferite, la realizzazione che Harry sia solo un nuovo pensiero da tenere ben al caldo al piano di sopra, distrugge a livello emotivo ma è anche decisamente patologica. Quella vetrata, rotta pochi minuti prima come prova incontrovertibile che quel mondo non ha più nulla di vivo, perde il suo significato di membrana posta a protezione dal trauma che viene finalmente infranta. Così facendo, si spegne quella componente realista e magica per sprofondare in uno sconforto sovraimposto. Il superamento della soglia finisce per non essere soddisfacente come sperato, nonostante non mi aspettassi un lieto fine. Tuttavia, ringrazio il regista di non aver fatto un Il Sesto Senso: se avessi saputo che persino Adam era morto, avrei semplicemente fatto tornare indietro tutte le lacrime versate per reintegrare il sodio perduto.

    Nonostante queste ultime critiche, che comunque sono più note a margine, l’ho trovato un film toccante senza essere stucchevole, competente nei suoi ossimori. Gli intrecci tra le gambe sudate di Paul Mescal e Andrew Scott, mentre mangiano una pizza con birra a seguito, sono imbevuti di leggerezza e passione genuini.

    Tuttavia, nonostante abbia il suo impatto, non credo che riuscirò più a vedere questo film almeno per un pezzo. Quel senso di inquietudine addosso, che non è stato lavato via da The Power of Love di Frankie Goes to Hollywood, ha avuto bisogno di tempo per essere digerito appieno. Sotto questo punto di vista, Estranei è un film che ti chiede di essere osservato ma tenuto a debita distanza, facendosi latore della sua stessa narrativa.


  • All is full of spores, ( 02/03/2024 )
    Nausicaa della Valle del Vento è un’opera che non necessita di presentazioni (e probabilmente nemmeno di questa analisi): il suo impatto parla per sé. Il film, basato sui primi volumi dell’omonimo manga dello stesso Hayao Miyazaki, fu accolto positivamente sia dal pubblico e dalla critica e dal suo successo nacque nel 1985 lo Studio Ghibli, attivo da quasi 40 anni.

    Ad oggi, lo studio è a tutti gli effetti sinonimo non solo di cura del medium dell'animazione, ma anche di delicatezza dei temi trattati coniugata ad un sottotesto politico maturo che nasce da una solida ed eterogenea formazione.

    Nausicaa della Valle del Vento, nonostante sia una delle prime opere di Miyazaki come autore, incarna perfettamente l'ethos di quello che poi sarebbe diventato Studio Ghibli e del suo impatto, indiscutibile, sull’animazione giapponese e mondiale.

    Substrato Colturale

    Prendendo spunto dai classici dell'epica, della fantascienza, del fantasy e del folklore (in particolare, la fiaba de "La principessa che amava gli insetti"), il personaggio mitologico di Nausicaa viene traslato in un mondo magnificamente dipinto nel suo orrore e splendore, richiamando il sincretismo di fantastico e fantascientifico di Jean Giraud. La principessa omerica, che allevia le ferite di Ulisse e che ascolta le sue avventure, diventa protagonista della sua personale Odissea.

    Tuttavia, l’opera non è ispirata solo da immaginari bucolici: lo sversamento di acque contaminate da metilmercurio nella baia di Minamata tra gli anni ‘50 e ‘60 scosse l’opinione pubblica giapponese, tanto che Hayao Miyazaki lo cita come una fonte di ispirazione. Osservare come la vita si fosse adattata e non si fosse fermata alla presenza di un veleno creato dall’uomo fu uno dei motivi che lo spinsero a voler narrare la storia di Nausicaa (Dani Cavallaro, 2006).

    Nonostante questo evento costituisca lo sprone principale per la realizzazione dell’opera, è anche doveroso ricordare che è inserito all’interno di un quadro molto più ampio: infatti, tra gli anni ‘60 e ‘70 si assistette ad una presa di coscienza collettiva sulle questioni ambientali, dapprima, ed ad una crescente pressione per interventi di preservazione ambientale a larga scala, dopo. Per dare un’idea, nel 1962 venne pubblicato per la prima volta La Primavera Silenziosa di Rachel Carson, un report sui danni e gli effetti sull’ambiente dei DDT, di diserbanti e pesticidi artificiali che ottenne un enorme successo; venne registrata la prima pioggia acida negli anni ‘60 ad Hubbard Brook; infine, avvenne il disastro petrolifero di Santa Barbara del 1969, considerato ad oggi il peggiore della storia. In seguito a quest’ultimo evento, tutt’oggi di enorme portata, il senatore Gaylord Nelson affiancò alle proteste anti-Vietnam del tempo un forte sentimento ambientalista, in quella cascata di eventi che porterà all’istituzione della Giornata della Terra (1970) e al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (1972). E, ça va sans dire, furono anche gli anni della Guerra Fredda, con le sue costanti e prolungate tensioni.

    Un Mondo Marcio

    I temi ambientalisti e anti-imperialisti, connaturati alla nascita del racconto per le ragioni sopra elencate, sono riflessi non solo nelle azioni dei personaggi e nella sua morale, ma persino nelle leggi che governano il suo mondo. Il suo anno zero è costituito dai "Sette giorni di fuoco", un evento apocalittico che ha decimato la popolazione umana e stravolto l’ambiente. Gli "Dei Guerrieri", creature biomeccaniche distruttive e colossali, marciando sul mondo lo hanno ridotto ad un cumulo di macerie, per poi svanire. L’evento fa rientrare Nausicaa della Valle del Vento in quella macrocategoria di anime che Dani Cavallaro definisce “catastrofici". In esso, si scorge una riflessione sulla tragedia della Seconda Guerra Mondiale per il Giappone, ed in particolare delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki (che occorre ricordare, furono sganciate dopo la resa del Giappone).

    Dalle ceneri del conflitto, sorge una Terra intimamente spezzata: natura contro uomo, e uomo contro uomo. Gli insetti, difensori strenui del Mar Marcio, devono rimanere entro i suoi confini, e lo stesso Mar Marcio corrode qualsiasi cosa che inali la sua aria; tuttavia, ciò che giace fuori di esso è certamente meno letale, ma non per questo idilliaco. Il Mar Marcio rappresenta una anti-oasi all’interno di un deserto di dimensioni globali, che altro non è che il cadavere della Terra.

    Se la sopravvivenza in queste condizioni non fosse già ardua, la società è dilaniata dal conflitto tra due nazioni, Tolmekia e Pejite. Esse si contendono l’ultimo grumo di cellule di un Dio Guerriero, con lo scopo di assumerne il totale controllo e annientare gli avversari. Il conflitto assume le connotazioni di una corsa agli armamenti con i suoi ragionamenti circolari: ognuno vede come prerogativa controllare il guardiano per annientare l’altro, perché altrimenti si verrebbe annientati da esso. La cosiddetta "Valle del Vento”, l’epicentro della storia, è un atomo di Arcadia in un mondo arido e ostile. In essa tutto si muove, la vita germoglia, le ferite vengono curate e le piante crescono.

    Questa frattura iniziale è riflessa persino nelle scelte estetiche. Il paesaggio delle giungle tossiche appare alieno, brulicante e rigoglioso, con regolari nevicate di spore: viene giustapposto al deserto, che ci appare lunare, arido e vuoto. Le forme pesanti e meccaniche delle navi da guerra fanno sembrare i velivoli (dal design più naturalistico) di Nausicaa ancora più leggiadri nel loro cavalcare il vento. E persino le aeronavi Tolmekiane e Pejite, come in una competizione sportiva, sono rispettivamente blu e rosse.

    Le parti più vitali del mondo ci sembrano quelle più aliene, quelle più mortifere, mentre l’umanità si rintana dentro delle gigantesche gabbie meccaniche; i conflitti e le tensioni raggiungono dimensioni apocalittiche e diventano irrisolvibili se non con l’annientamento completo dell’altra parte, in quanto l’ibridazione non è nemmeno contemplata. In un mondo governato dalla contraddizione, la pace non può esistere: Kushan invade la Valle del Vento e la forza a prender parte al suo piano di distruzione “per costruire la pace”. Arroccata nella sua armatura d’oro, si spinge a minacciare con una pistola Nausicaa proprio dentro una zona corrotta, dove un solo colpo di pistola potrebbe stravolgere qualsiasi equilibrio.

    Considerato il contesto storico e sociale in cui questa storia si inserisce, in questo mondo frammentario è difficile non vedere un riflesso delle tensioni globali nei decenni dopo il secondo dopoguerra.

    Tutto è pieno di spore

    Nonostante questo mondo sia nato dalla (metaforica, quanto letterale) atomizzazione del mondo antico; nonostante il divario tra gli opposti sembri incolmabile e anzi, le sue figure di potere non facciano altro che acuire questa frattura, il ricongiungimento è inevitabile e la contaminazione è nascosta proprio in nelle contraddizioni.

    La storia è messa in moto quando la placida vita nella Valle del Vento viene interrotta da un disastro aereo che, nell’unica isola di tranquillità in un mondo sempre più affamato, porta non solo la tragedia e le fiamme, ma anche ciò che ha distrutto e stravolto il mondo antico, ovvero i resti di un Dio Guerriero. Nell’ultima zona risparmiata dagli spari, arrivano ben presto orde di carri armati. Essa viene convertita ad incubatrice di una enorme macchina da guerra e persino le spore di corruzione, fino ad adesso tenute a bada dal lavoro certosino dei contadini, crescono silenziosamente sugli alberi i cui frutti nutrono la valle.

    La valle viene trasformata dall’imperialismo crudo e sprezzante in un campo di battaglia, mettendo a repentaglio pure la sua sopravvivenza: l’annientamento è considerato più importante di qualsiasi sostentamento.

    Le polarizzazioni manichee precedentemente esposte sono libere di mostrare tutta la loro potenza.

    Il mare della corruzione è una minaccia da rimuovere, allontanare ad ogni costo: la soluzione finale è annientarlo una volta per tutte. La realtà umana va epurata di qualsiasi cosa minacci la sua centralità nel mondo… la sua alienità terrorizza, mette a disagio, sebbene sia proprio la speranza di fiorire di nuovo.

    Al contrario, l’arma, mostruosa e radioattiva, che ha portato l’apocalisse, non ci appare come altro che umana: si comporta esattamente come un embrione che lentamente cresce in feto e poi bambino, cammina, ha una voce. Rappresenta, dopotutto, aspirazioni tutte umane: proietta la volontà dell’uomo sulla natura, anche al costo di distruggere ciò che ci permette di dirci esseri viventi.

    È qui che si manifesta la genialità dell’allegoria, che mi ha spinto a scrivere questo articolo.

    La seconda metà dell’opera è proprio dove avviene l'inversione. In seguito ad un atterraggio di fortuna nel Mar Marcio, Nausicaa e Asbel finiscono al di sotto della giungla tossica. Si rivelano davanti ai loro occhi la bellezza e l’ingegno della vita nell’acqua limpida e nell’aria pura che li circondano. Il Mar Marcio non è più una malattia da debellare, ma proprio il sistema immunitario della Terra, che risana le ferite inferte dagli esseri umani un millennio prima.

    Di fronte ad essa, tuttavia, sia Pejite che Tolmekia, hanno la stessa reazione di ostilità. Crolla qualsiasi patina a rendere le due armate differenti, è solo una questione di colori e bandiere; entrambi condividono la stessa crudeltà e violenza. Se Kushan pianifica di rilasciare il Dio Guerriero a qualsiasi costo, è dei Pejite l’idea di trafiggere un piccolo Omh ed utilizzarlo come esca per scatenare gli insetti contro la Valle.

    Se ne La Primavera Silenziosa, l’imminente disastro era annunciata dall’assenza dei canti degli uccellini in primavera, similmente nella Valle del Vento, il vento si ferma.

    Davanti ad un’umanità meschina e affamata di sangue, gli Omh, dei giganteschi isopodi, e con loro gli insetti tutti, sono gli unici a donare amore e a poter ricevere compassione. L’alieno è vitale, l’umano è mostruoso.

    La cieca rabbia degli Omh per un loro piccolo maltrattato è davvero la rabbia della Terra; non viene arginata nemmeno da un Dio Guerriero che, per quanto divino, si decompone e si accartoccia su sé stesso.

    A portare la pace non è sicuramente lo strumento che ha creato quella divisione in primo luogo: anzi, caduta qualsiasi patina retorica, l’umanità è costretta ad affrontare le conseguenze dei suoi disastri, a prendersi il carico di aver creato il proprio inferno.

    Non è con l’odio che viene colmata la spaccatura: ma è con il sacrificio di Nausicaa, mosso da amore puro, che gli Ohm finalmente si placano. Nonostante i loro rigidi carapaci e occhi vitrei, è palpabile e universale la malinconia di fronte al sangue innocente e la felicità di vederla di nuovo tra loro. Se l'immolarsi distrugge il vecchio mondo, la sua rinascita sancisce l’inizio di una nuova età dell’oro.

    Da un rapporto con la natura di osservazione e di coesistenza, anziché di antagonismo e competizione, arriva il progresso e la distopia si tramuta in utopia. Aprendosi alla contaminazione, essa diventa un arricchimento e giungono nuove prospettive che consentono una genuina crescita oltre la stagnazione del pregiudizio e del trionfo personale.

    Il mondo è finalmente di nuovo unito. Il deserto ha lasciato spazio a rigogliosi pascoli dove i bambini crescono e imparano. Le minacciose zone corrotte sono finalmente guarite, sbocciando in lussureggianti foreste. Tra la sabbia e l’acqua pura, si intravede un cimelio abbandonato, da cui è nata un nuovo germoglio. Tutto è pieno d’amore, tutto è pieno di spore.

    Bibliografia e fonti:

    Cavallaro, Dani (2006). The anime Art of Hayao Miyazaki.

    Earthday.org

    Give Earth a Chance (UniMichigan History Department)


  • Primum Movens, ( 07/02/2024 )
    Se c'è un aspetto di Internet che, all'inizio del 2000, lo faceva sembrare allo stesso tempo sia magico che avveniristico, è quanto apparisse vasto, colorato, diversificato; popolato di idee ed estetiche mai viste, come dei piccoli mondi a cui ci era concesso connetterci a intervalli regolari (senza esagerare, che la connessione era a consumo). Sebbene sia la visione nostalgica filtrata dall'immaginazione infantile, credo ci sia un fondo di verità nel riconoscere che qualcosa è cambiato nella modalità di fruizione del web: basta accostare l'homepage di un blog di 20 anni fa con quella di un profilo instagram qualunque per capirlo. Non pensi che i sogni e internet siano simili? La differenza che salta più all'occhio, confrontando queste realtà, è proprio quella estetica. La personalizzazione, nei social media, è limitata a pochissimi elementi: di solito, si parla dell'immagine del profilo, della bio e un banner sotto; ma molto più probabilmente, solo i primi due. Negli interstizi, dominano le scale di grigi, perché altrimenti, a starci tutto il giorno attaccati, stanca un po'. Ci siamo ridotti a spazi personali che sembrano griglie di Excel perché sarebbe auspicabile starci tutto il giorno, in quel sistema che sta venendo sempre più spesso descritto come "Attention Economy" (economia dell'attenzione). Se la permanenza in un singolo sito (perché, ricordiamoci, i social media sono comunque siti internet) deve essere massimizzata, al contempo l'esplorazione laterale (es. outlink) va ridotta al minimo e destinata principalmente alla pubblicità, ovvero il fine ultimo che giustifica l'esistenza dei social media, le loro bizzarre scelte morali, sociali e di funzionamento. Avendo maturato queste considerazioni, ho quindi deciso di aprire questo blog: uno spazio che potesse essere leggermente più personale di una homepage prefabbricata, su cui potere avere anche più organizzazione e più controllo sul contenuto, in modo tale da essere io stesso a decidere l'esperienza dell'utente (nei limiti del possibile). Riguardo a quest'ultimo aspetto, ed essendo io un gran prolisso, trovo l'interfaccia e il funzionamento dei social media più usati oggi disincentivanti nei confronti di testo più lungo di qualche rigo. Un singolo paragrafo su instagram riempie una storia per intero con un carattere poco leggibile (e inondare il feed altrui di blocchi di cemento non è il massimo), su Twitter (precedentemente Twitter) diventa così segmentato che si passa più tempo a scrollare che altro; non sono abbastanza telegenico per mettermi a fare video essay, tiktok o podcast. Per quanto questa possa sembrare una lamentela di una persona pesante, in realtà ha un suo effetto su quello che viene presentato all'utente: l'informazione va comunicata velocemente, senza aver il tempo di analizzarla, sostanziarla o presentare fonti, riducendola ad uno slogan (o ad una estetica) privo di ulteriore approfondimento, che vive nell'unico spazio tra la maiuscola e il punto fermo. Quindi, sia per evitare di presentare idee frettolose su argomenti che invece vale la pena approfondire, sia con lo scopo (decisamente meno politico e analitico) di migliorare il modo in cui ricerco, scrivo, narro e critico, ho deciso di destinare queste pareti di HTML proprio al contenuto più esteso. Mi va totalmente bene riempire Instagram, Twitter (llamame Twitter) o qualsiasi cosa verrà dopo di spazzatura, ma se voglio prendermi qualche secondo in più per parlare, voglio avere un posto più adeguato per farlo e nel frattempo divertirmi un po' a fare banner, a cercare gif per addobbarlo e giocare con il CSS e il web design in generale. Rigettando la fulminea iper-staticità del web dei social media, Inerzie sarà anche per me un modo di potermi esprimere fuori dai limiti imposti dal branding necessario a far da collante ai quadratini che compongono un profilo social. Ci sarà spazio per attualità e politica; per riflessioni che spero di poter elaborare con il giusto tempo; per analisi di prodotti mediatici che mi piacciono, e critica di quello che non mi piace (perché qualcosa di interessante da dire ci potrebbe essere); ma non penso di limitarmi solo a questo. Essendomi concesso sviluppare estensivamente le idee ed il contenuto, vorrei esplorare la narrativa, la finzione ed il delirio.

    Se quindi, da un lato spero di poter (ri)acquistare la profondita nel testo (e spingere altre persone a farlo), dall'altro spero che un utilizzo più consapevole del web porti ad una minore compulsione nei confronti del posting. Al momento, quindi, non ho tra i miei piani di pubblicare regolarmente o ad una cadenza prestabilita: sia per comprendere la giusta dimensione di ogni cosa (certe volte no, it's not that deep), sia per non compromettere la qualità dell'elaborato finale. Inerzie deve essere, almeno per me, un piacere, un hobby, una necessità espressiva, ma mai un dovere o un lavoro. Deve, in altre parole, contenere degli stimoli e degli impulsi per superare l'inerzia della vita quotidiana e del web odierno, senza nostalgia, ma anzi, con propensione al movimento. Se infatti, ho menzionato sopra il web "prima", ciò non si deve intendere come un richiamo al passato fine a sé: lo sguardo va rivolto al futuro, che va costruito e a cui non ci si deve arrendere; il passato va analizzato perché è da esso che proveniamo, ma mai idolizzato.

    Idealmente, Inerzie sarà la crasi tra la necessità di un locus amoenus digitale e l'esigenza di andare oltre quello che è commercialmente intrigante; un giardino (un po' incolto) a cui prestare cura, anziché una bacheca piena di soldatini, cristallizata in sé stessa. Probabilmente è un'utopia, ma si spera, priva di escapismo.


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