Sui contorni disturbanti tracciati da una polemica di cui avremmo fatto volentieri a meno
Postato il: 03 agosto 2024 -
Della vicenda dell’incontro di Boxe Algeria - Italia ne sta parlando e ne ha parlato qualsiasi tabloid, ovvionionista, telegiornaletto e shitshow televisivo. Nonostante sappiano pure le pietre cosa sia successo, per dovere di cronaca (soprattutto se questo articolo verrà mai letto, in futuro), ricapitoliamo gli eventi nel modo più neutro e lineare possibile.
Olimpiadi di Parigi, 2024. Nella giornata di Giovedì 1 Agosto, alle 12:20, la categoria di peso Welter (da 61 a 69 kg, grossomodo una categoria media) della Boxe femminile giunge agli ottavi di finale. L’incontro vede l’algerina Imane Khelif contro l’italiana Angela Carini.
Le due salgono sul ring. Dopo pochi secondi ed un po’ di finte parte il primo vero contatto: l’azzurra si spinge in attacco, ma manca l’avversaria, che rimonta e sferra un colpo diretto (non so abbastanza di boxe per dare ad esso un nome, perdonatemi) al volto dell’italiana. Quest’ultima dapprima chiede un time-out, andando a riferire all’angolo del suo dolore al naso (senza tuttavia riportare ecchimosi o lesioni di alcun tipo, visibilmente frustrata, ma non sofferente). L’incontro riprende; dopo pochissimi secondi e nessun contatto, Carini alza la mano e si arrende. Esce fuori dal ring, rifiutando di salutare l’avversaria (come di solito si fa, per sportività). La vittoria va all’Algeria per il ritiro dell’Italia.
Ripassato brevemente l'evento di cronaca, adesso possiamo finirla di fare finta di star parlando di sport: perché è da 3 giorni che si parla di tutto eccetto che di pugilato. Semmai si discute di ciò che sta attorno allo sport, ma l’incontro di per sé è qualcosa di veramente patetico. Vi invito, se non l’avete visto, a recuperarlo (linkato sotto). È il bignami di un match fallito: dura pochissimo ed è privo di qualsiasi interesse anche per un occhio grossolano come il mio. Una manciata di finte, qualche guardia, un singolo colpo standard e totalmente a norma, ed un ritiro precoce. Non mi interessa più di fare debunking di tutto quello che è stato detto dell’atleta Algerina, che se si fosse trovata in condizioni diverse sarebbe passata totalmente inosservata. Si è già parlato abbastanza. Non voglio disquisire di come funzionino gli ormoni, o i cromosomi, a livello medico.
Il motivo per cui sto scrivendo questo post è analizzare quello che sta a monte della questione, che mi ha lasciato un senso di amarezza per quanto sia stato poco problematizzato.
Khelif, in questi giorni, è stata definita nei modi più disparati: un uomo, o una donna trans, o una donna intersex, o “XY”, o una donna con troppo testosterone.
Nella ricerca su cosa l’atleta algerina sia davvero, c’è qualcosa di raccapricciante. Essa, parte dall’assunto che forgia la concezione della realtà biodeterminista: il mondo è diviso in due categorie, XX e XY; nessun individuo XX può essere XY, né nessun individuo XY può essere XX. Gli individui nascono XX/XY e il loro essere XX/XY determinerà qualsiasi aspetto, talento, aspirazione, capacità; le categorie XX e XY sono antitetiche, mutualmente esclusive, inconciliabili e immutabili. Nessuna deviazione dalla norma è ammessa: l’essere XX o XY è una caratteristica essenziale di ordine talmente elevato e primordiale che è impossibile concepire un mondo in cui l’individuo possa andare oltre XX o XY o in cui l’XX possa essere scambiato per XY, e viceversa.
Quindi, nessunə atleta XX potrà mai competere con unə atleta XY; se ci sono atletε XY a combattere contro atletε XX, questa cosa va subito fermata; è inconcepibile, violerebbe una delle regole base dell’esistenza.
Questo è il campo dove si è giocata buona parte della polemica: stabilire se l’atleta fosse XY o XX, dividere il mondo in queste due semplici categorie anti-intellettuali e poi campare per rendita.
Non penso sia auspicabile chiedere che il corredo genetico di una persona, o la forma dei suoi genitali, siano di dominio pubblico: non dovrebbe importare a nessuno se non allε direttε interessatε (che certamente non siamo noi).
Tuttavia, qualsiasi caratteristica somatica vagamente non inquadrata nelle aspettative di genere (ovvero, come ci aspettiamo che una persona di un determinato genere debba sembrare) è stata usata come pretesto per puntare il dito e fomentare una caccia alle streghe. Trovo disturbante come dei tratti un pelino diversi siano stati un pretesto sufficiente per far sì che il pubblico dell’evento sportivo più seguito al mondo, in una delle discipline più antiche, mettesse le mani nei pantaloni ad una donna razzializzata.
La motivazione per violare in mondovisione l’intimità di una donna, tuttavia, deve essere almeno un minimo convincente. E la politica italiana, identitaria e conservatrice, in questo è stata bravissima: vanno protette le donne, gli uomini vanno rimossi dagli sport femminili, dove sarebbero altrimenti troppo bravi e dove gli uomini scarsi si ritirano per non competere con gli uomini bravi.
Questo è il secondo assunto che si è integrato nel dibattito pubblico acriticamente. Come ogni argomento in malafede, l’accusa lanciata è stata talmente grossa che, pur di difendersi, è stata presa per assiomatica una premessa tutta da dimostrare. Le implicazioni non solo sono apertamente transfobiche, ma hanno anche al proprio interno un sessismo d’ancien régime. Infatti, è dato per naturale e ovvio che le donne non potranno mai fare quello che fanno gli uomini, con le stesse performance a parità di allenamento, opportunità e caratteristiche fisiche.
Come detto in precedenza, il pugilato è uno sport antico, facente parte anche dei giochi olimpici originali. Le categorie di peso sono state centellinate per far sì che lo sviluppo fisico potesse avere il minimo impatto possibile nei risultati. La categoria Welter femminile si svolge totalmente all’interno di uno spazio di solamente otto chili. Chiunque vi rientri ha più o meno lo stesso fisico, la stessa massa muscolare, con una piccola finestra di variazione ammessa. La competizione deve riguardare l’abilità, l’astuzia, il tempismo, i riflessi, il prevedere le mosse avversarie più che la forza fisica, per quanto sia una disciplina dove ci si mena le mani.
Perché, nonostante in una intervista di studio aperto (che però risulta tagliata negli archivi) in cui dice di combattere per i diritti delle donne, nonostante i tweet cancellati e la facciata da paladina, si parla di uno sport di combattimento, non di un contesto violento. Il ring ha delle regole - le categorie di peso sono una delle tante - e delle protezioni per far sì che ci dia davvero tanti pugni ma che nessunə si faccia davvero male. Questo è un privilegio che le vittime di violenza di genere non possono nemmeno sognarsi.
Far assumere ad un match le connotazioni della lotta all'oppressione di genere (nel modo più jingoistico possibile, per altro), è totalmente inadeguato e di cattivo gusto. Si opera un totale disservizio nei confronti delle vittime vere, che vengono ridotte ad una equazione facile da digerire quando è in realtà un problema che riguarda la società a più livelli e non quello che è accaduto all’Arena Nord di Parigi all’inizio di Agosto.
E se Imane Khelif fosse stata davvero un uomo cisgender, cosa avrebbe reso i suoi pugni automaticamente più letali di quelli di una donna con la stessa altezza, lo stesso peso, la stessa massa muscolare e più o meno lo stesso fisico? Cosa cambia tra un muscolo XY e XX delle stesse dimensioni allenato a sferrare pugni dalla potenza fissa e misurabile con un ergometro? Non c’è la società, dentro quel ring: quella dimostrazione di forza non terrà una delle due parti a casa, impossibilitata ad avere una indipendenza economica. Non ci saranno gli arbitri a ignorare le richieste di aiuto per poi stupirsi dell’evento tragico.
Perché, che Khelif fosse perfettamente regolare all’interno della competizione non c’erano dubbi. L’aveva stabilito già una commissione, e l'unico dubbio veniva da un ente russo che si sta prodigando a elargire cospicue quantità di denaro dopo l'accaduto (che già dovrebbe far scattare qualcosa). Nulla, nella sua carriera sportiva, fa pensare a qualche sorta di slealtà. Ma tutto ciò non serviva mica a stabilire se l’atleta stesse barando. Come ogni fuffa mediatica del governo Meloni, è giusto guardare un po’ oltre a quello che fa scattare il clickbait.
In pochi giorni, siamo riusciti a rafforzare gli stereotipi e le differenze di genere senza nemmeno rendercene conto, l’abbiamo fatto noi stessε quando cercavamo di difendere il corredo genetico dell’atleta algerina. Siamo statε trasportatε dentro un ring in cui il mondo bioessenzialista, bimodale e retrogrado, ha fatto da arbitro; abbiamo difeso questa convinzione nel nostro angolo. Parallelamente all’uomo algerino cattivo che finge di essere donna c’è una donna vera, di potere, che con la sua carezza lenisce le ferite della pugile (giusto perché la donna è sempre un ruolo di cura). Le donne sono diventate troppo deboli per sfidare gli uomini anche quando hanno le stesse competenze. Si è donna solo e unicamente se si è XX, e quella doppia croce è l’unico parametro di definizione valido della femminilità; ma allo stesso tempo, una minima goccia di testosterone rende una donna troppo brava, perché esso è il siero della bravura, di cui gli uomini sono pregni.
Lo vedete, quanto è facile, adesso, prendere parte ad un pancrazio in cui dobbiamo a tutti i costi dire alle donne cosa sono costrette a essere?
Ah, dimenticavo: